Psicologia e alimentazione
La Psicologia del Comportamento Alimentare
La Psicologia del Comportamento Alimentare è una branca che si occupa di studiare le basi psicologiche del nostro comportamento alimentare e le motivazioni che stanno dietro alle nostre scelte e abitudini alimentari.
Lo psicologo alimentare è uno specialista appositamente formato per trattare individui con problemi di peso corporeo: rientrano nel suo ambito di intervento sia i disturbi del comportamento alimentare (DCA): anoressia, bulimia, binge eating disorder, sia condizioni di sovrappeso e obesità che hanno un’origine psicologica.
A partire dagli anni ’70 si è iniziato a studiare l’alimentazione non solo sotto il profilo biologico ma anche dal punto di vista psicologico. Si è infatti compreso che l’atto di nutrirsi è un fenomeno bio-psicologico.
Il comportamento alimentare è influenzato infatti da numerosi fattori: in parte genetici ma anche e soprattutto sociali, familiari, ambientali e di personalità. Questo comportamento, che in origine corrispondeva a un bisogno primario per la sopravvivenza ed era sotto controllo esclusivamente istintivo, con l’evoluzione della specie ha assunto sempre di più il carattere di bisogno secondario che ha fatto associare al cibo significati che vanno al di là del suo valore meramente nutritivo.
Quando iniziamo a riflettere e osservare il nostro rapporto con il cibo diviene chiaro che noi non assumiamo sostanze affettivamente indifferenti: il cibo è infatti nutrimento calorico ma ha un significato più ampio di nutrimento emotivo-affettivo. Il valore simbolico che attribuiamo al cibo interferisce quindi con la funzione alimentare e le sue caratteristiche istintive, connotando il comportamento alimentare di significati che vanno ben oltre lo scopo essenziale di mantenere in condizioni ottimali l’organismo.
Dietro il bisogno di nutrimento si nasconde una profonda motivazione affettiva legata al piacere che è legato al consumo di certi cibi. Attraverso il cibo costruiamo delle relazioni, stabiliamo la nostra identità, definiamo le nostre regole di adesione a principi etici e religiosi e creiamo legami di appartenenza con la nostra comunità. La storia di ognuno di noi è strettamente legata al cibo ed è costellata da gusti, profumi, preferenze per certi alimenti o avversioni per piatti che non possiamo neppure sentire nominare.
Il modo in cui mangiamo è tra gli aspetti più personali e privati del nostro quotidiano e cambia durante tutto l’arco della vita. Così, un comportamento che all’inizio svolgeva semplicemente una funzione primaria per la nostra sopravvivenza nel corso della nostra storia personale si va a complicare sempre di più a causa di numerosi fattori fino a diventare un comportamento acquisito in cui l’apprendimento gioca un ruolo decisivo.
La fame e la sazietà
Fin dalla nascita la nostra alimentazione è regolata dal meccanismo di fame e sazietà, che ci spinge a mangiare in risposta alla fame e a fermarsi quando si raggiunge la sazietà. Questo meccanismo è regolato da alcune strutture del sistema nervoso centrale: l’ipotalamo laterale (centro della fame) e l’ipotalamo ventro-mediale (centro della sazietà). Secondo alcune teorie il senso di fame scatta quando il livello di zuccheri nel sangue si abbassa oltre un certo livello e quello di sazietà interviene quando il livello della glicemia è stato ripristinato ai suoi valori normali.
Eppure le cose non sono così semplici: se la fame fosse davvero regolata dai valori critici di glucosio nel sangue, perché allora basta vedere un piatto che ci piace per innescare l’acquolina in bocca e la sensazione della fame, pur essendo i valori degli zuccheri nella norma? In questo caso entra in gioco la proprietà incentivante del cibo: alcune ricerche hanno dimostrato che, modificando l’appetibilità del cibo, si hanno delle forti variazioni nella quantità di cibo assunto. Aggiungendo saccarina al cibo, si è visto che i ratti consumano più cibo, mentre se si aggiunge chinino, che rende il cibo più amaro, i ratti ne consumano di meno. Dunque è presumibile che se avessimo a disposizione solo cibo dal sapore sgradevole ci ritroveremmo a mangiarne lo stretto necessario e finiremmo probabilmente per dimagrire.
Un altro fattore che influenza la quantità di cibo che viene assunta è il fenomeno della sazietà senso-specifica per cui l’appetibilità dei cibi varia dopo averli mangiati: un secondo piatto viene mangiato meno volentieri se è uguale al primo perché ci si è assuefatti al sapore, ma se a fine pasto viene portato del cibo che ci piace, anche se siamo sazi, è probabile che mangeremo ancora.
Quindi, se è vero che mangiamo quando abbiamo fame, il modo in cui mangiamo è condizionato da fattori sia interni che esterni a noi. Non è solo la fame che guida le nostre scelte alimentari. In effetti, come è possibile che certe persone continuano a mangiare anche se il loro fabbisogno energetico è stato di gran lunga superato, come avviene nel disturbo da alimentazione incontrollata, oppure altre non riescono a mangiare pur essendo gravemente malnutrite come nell’anoressia nervosa?
I disturbi del comportamento alimentare
La presenza di un crescendo di disturbi dell’alimentazione nei quali questo equilibrio tra fame e sazietà è pesantemente compromesso e nei quali non è stato riscontrato alcun “danno” o compromissione a livello del meccanismo centrale ha portato necessariamente a considerare che il comportamento alimentare non è controllato soltanto da meccanismi metabolici ma dipende anche da altri fattori.
Nelle persone che soffrono di disturbi del comportamento alimentare non esiste una corrispondenza percettiva tra lo stato metabolico dell’organismo e la sensazione di fame o sazietà: così, alcuni individui smettono di nutrirsi per adattare la forma del corpo a uno schema deformato che si sono creati nella mente, altri mangiano fino a sentirsi scoppiare tutte le volte che sentono il bisogno di consolarsi o si sentono nervosi.
Diverse ricerche hanno evidenziato che la funzione fame-sazietà, benché effettivamente innata, per poter pervenire ad una adeguata maturazione deve avvalersi dell’apprendimento. La madre o chi si prende cura del bambino nei primi mesi di vita ha la funzione di riconoscere i bisogni di nutrimento del bambino e di soddisfarli nel modo corretto. Il modo in cui la madre risponde ai segnali del figlio è il fattore decisivo che rende possibile al bambino di diventare progressivamente consapevole dei propri bisogni, di sé stesso e della sua identità separata. Perchè questo avvenga è necessario che la madre sia in grado di comprendere i segnali del bambino che indicano il suo bisogno di nutrimento e di rispondere in maniera adeguata offrendo del cibo.
Hilde Bruch, famosa psicologa che si è occupata dei disturbi del comportamento alimentare, ha riscontrato nelle storie personali di soggetti affetti da questi disordini che le risposte della madre ai segnali di bisogno emessi dal bambino erano spesso incongrue e confusive. In particolare, ha evidenziato alcuni comportamenti inappropriati della madre che possono interferire negativamente con lo sviluppo della consapevolezza del segnale di fame:
- la tendenza ad anticipare il bisogno di cibo del bambino che, portando a fornire nutrimento prima che il bimbo possa richiederlo, impedisce al bimbo stesso di poter sentirne la necessità e quindi mina la sua capacità di riconoscere la fame a la sazietà.
- la tendenza a strumentalizzare il cibo per altri bisogni oltre a quello nutritivo: spesso lo utilizzano come premio per ricompensare il figlio o per ottenere la sua obbedienza. Questa esperienza precoce porta alla formazione dell’abitudine nociva di utilizzare il cibo come forma di auto-gratificazione o di auto-consolazione.
-la tendenza a dispensare cibo utilizzandolo come panacea universale per sedare qualsiasi tensione del loro bambino: questo non fa altro che costituire le base della futura tendenza a ricercare il cibo per alleviare gli stati d’animo negativi come l’ansia, la rabbia o lo stress.
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