Il disturbo da attacchi di panico (DAP)
La Diagnosi
Secondo i criteri stabiliti dal DSM-V (2014), per la diagnosi di un disturbo di panico (DAP) è necessaria la presenza di:
1) crisi di panico ricorrenti
2) in seguito all’attacco di panico la presenza di un periodo caratterizzato dalla paura costante di avere un altro attacco e dalla preoccupazione per le sue conseguenze
3) una modificazione significativa del comportamento correlata agli attacchi
Per Cassano (1994)[1], le crisi di panico rappresentano il nucleo principale del disturbo. In genere si tratta di episodi acuti che si presentano inaspettatamente, raggiungono un’intensità massima e si risolvono nel giro di una decina di minuti.
La sintomatologia delle crisi può variare molto e persino nello stesso paziente può presentarsi in maniera diversa in tempi successivi. Molti pazienti presentano attacchi minori, distinguibili dagli attacchi maggiori per la ridotta presenza di sintomi e per la minore intensità del disagio che comportano.
I sintomi più frequenti negli attacchi minori sono vertigini, palpitazioni, difficoltà a respirare, sentimenti d’irrealtà, comunemente accompagnati da una sensazione di paura o disagio improvvisa.
Al termine dell’attacco di panico si può avere una fase post-critica in cui permangono fastidiose sensazioni di vuoto alla testa, tensione muscolare, vertigini, apprensione, depersonalizzazione e derealizzazione che talvolta durano anche per diversi giorni.
Gli attacchi, specialmente nella fase iniziale del disturbo, possono insorgere inaspettati e sembrano comparire totalmente a ciel sereno, senza un motivo evidente. L’esordio della malattia è costituito dalla comparsa improvvisa di un episodio critico che avviene in una situazione di routine. In genere la persona ricorda molto bene la circostanza in cui si è verificato il primo attacco, che rimane scolpita indelebile nella sua memoria.
Il DSM-V differenzia tra attacchi di panico spontanei o inattesi, o attacchi di panico situazionali. Questi ultimi sono attacchi che avvengono in circostanze che provocano disagio e paura nel paziente. In genere nei pazienti affetti da disturbo di panico l’esposizione a situazioni ansiogene determina una maggiore probabilità di avere una crisi di panico.
Reazioni psicologiche all’attacco di panico
Ansia anticipatoria
La reazione psicologica tipica che si instaura alla comparsa del primo attacco è lo sviluppo di quella che è stata chiamata ansia anticipatoria: uno stato di allerta e di preoccupazione costante che le crisi possano ripetersi e presentarsi da un momento all’altro. Questa paura di stare male viene definita anche “paura della paura”.
L’ansia anticipatoria è diversa dagli attacchi di panico, poiché ha una durata maggiore; inoltre essa può crescere lentamente e raggiungere un’intensità tale da provocare dei sintomi e delle reazioni emotive simili all’attacco di panico stesso. Tuttavia, i pazienti sanno discriminare nettamente tra le due esperienze: l’ansia anticipatoria in qualche modo è gestibile e controllabile evitando di pensarci o evitando la situazione temuta, l’attacco vero e proprio invece è un fenomeno che pare avere un andamento “tutto o nulla” e che, una volta innescato, ha il suo decorso e non può essere fermato.
L’ansia anticipatoria è un correlato del disturbo da attacchi di panico che, per il carico di angoscia e disagio che comporta, finisce per essere più invalidante degli attacchi stessi.
Ipocondria
Nel 30% dei casi di DAP dopo le prime crisi di panico compare una reazione ipocondriaca, a causa della quale la persona si convince o sviluppa la paura di soffrire di una malattia fisica; così inizia a sottoporsi a numerosi controlli medici, in cerca di una spiegazione del suo disturbo.
Dato che la sintomatologia della crisi di panico è soprattutto organica e assomiglia a quanto si prova nelle prime fasi di un infarto, molte persone arrivano al pronto soccorso dove il disturbo è spesso equivocato per un malessere di natura cardiaca. La possibilità di ricevere una diagnosi corretta del proprio disturbo dipende dalla capacità dello specialista di individuare la vera natura del problema. Non sempre i medici sono in grado di trovare una spiegazione, e questo finisce per rafforzare la preoccupazione ipocondriaca del paziente, che sarà spinto a sottoporsi a ulteriori accertamenti.
L’evitamento
In molti casi, quando la frequenza delle crisi si intensifica, alcuni pazienti finiscono per associare la comparsa degli attacchi con le situazioni e i luoghi specifici nelle quali si sono verificati. Questo non fa altro che instaurare le condotte di evitamento: essi cominciano a evitare in tutti i modi di trovarsi nelle circostanze che hanno associato alle crisi di panico, al costo di cambiare strada per andare a lavoro e al punto di non uscire più da soli, o di richiedere la presenza di un accompagnatore ogni volta che devono allontanarsi da casa.
Agorafobia
Si ha lo sviluppo di un disturbo da Agorafobia vero e proprio quando le condotte di evitamento diventano talmente pervasive da limitare le attività quotidiane e il funzionamento sociale e lavorativo del paziente.
Questa evoluzione rappresenta circa il 70% dei casi di DAP. In questo caso l’Agorafobia è una diagnosi secondaria rispetto al disturbo da attacchi di panico ed è determinata dalla necessità di evitare le situazioni associate con gli attacchi.
La reazione agorafobica produce un netto e progressivo deterioramento della qualità della vita, ed è molto più pericolosa degli attacchi di panico perché può compromettere le capacità di base dell’individuo e a fargli perdere l’autonomia.
La caratteristica essenziale dell’Agorafobia è l’ansia relativa al trovarsi da soli in luoghi o situazioni dai quali potrebbe essere difficile allontanarsi o nei quali potrebbe non essere disponibile aiuto nel caso si presentasse un attacco di panico. Le situazioni più temute sono: rimanere a casa da soli, trovarsi in mezzo alla folla o in coda, prendere l’ascensore, salire sul treno, un aereo o un altro mezzo pubblico di trasporto, attraversare un tunnel o un ponte.
Decorso e complicazioni
In un terzo dei casi di disturbo da attacchi di panico si verifica lo sviluppo di un quadro depressivo. La depressione è una conseguenza delle gravi limitazioni che la persona subisce a causa del disturbo e deriva dall’incapacità di svolgere una vita normale e realizzare i propri obiettivi. In genere sono presenti anedonia, sentimenti di inadeguatezza, inutilità, demoralizzazione, perdita dell’autostima e sfiducia.
In generale un’evoluzione abbastanza comune del DAP è costituita da una graduale scomparsa degli attacchi di panico, seguita dall’instaurarsi di un disturbo d’ansia generalizzato con condotte di evitamento che può andare avanti anche fino a 12-18 mesi dopo la scomparsi degli attacchi di panico.
Se non ricorre all’aiuto di un esperto, la persona si adatta a uno stile di vita restrittivo, al di sotto delle sue reali possibilità, finendo per assumere il ruolo di malato. Il comportamento di malattia diventa in certi casi uno strumento per ottenere supporto e attenzioni da parte dei familiari, ma anche un modo per evitare di confrontarsi con le situazioni che fanno paura.
Un’altra complicazione frequente nei casi di disturbo di panico è la dipendenza da benzodiazepine. Queste molecole sono ampiamente prescritte in tutti i disturbi d’ansia, ma esse presentano un grosso limite: agiscono unicamente a livello di soppressione del sintomo, non influendo né sui meccanismi con cui si esplica la malattia, né tanto meno sulle cause che sono alla sua origine. Inoltre, in seguito all’assunzione di questa molecola, s’instaura velocemente una tolleranza verso il principio attivo, con la conseguenza che, se ci si affida unicamente a questo tipo di farmaco per il trattamento del disturbo, non appena esso viene sospeso l’ansia si ripresenta.
In diversi casi si verifica anche l’abuso di alcolici o di altre sostanze sedative come tentativo auto-terapeutico per lenire l’ansia. Considerando l’alto rischio di complicazioni e gli aggravamenti del quadro clinico, un intervento terapeutico tempestivo e il corretto inquadramento del disturbo sarebbero assolutamente indispensabili per prevenire conseguenze negative sulla qualità di vita della persona.
[1] Cassano G.B., Manuale di Psichiatria, Utet, Torino, 1994.
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