Evoluzione storica dei disturbi d’ansia e di panico
L’attacco di panico, il disturbo di panico e l’agorafobia sono disturbi che hanno un’origine antica. Persino il grande medico greco Ippocrate (460-370 a.C.) parlò d’isteria descrivendo una condizione caratterizzata dai tipici sintomi che oggi noi riconduciamo agli attacchi di panico.
La spiegazione psicanalitica
La prima classificazione di quelli che oggi noi chiamiamo disturbi d’ansia si deve a Sigmund Freud (1894)[1], il quale distinse tra due forme d’ansia principali: la nevrosi d’angoscia e la nevrosi d’ansia acuta.
La nevrosi d’angoscia era un diffuso senso d’inquietudine e paura che nasce quando affiora alla coscienza un pensiero o desiderio rimosso. Nella concezione di Freud l’ansia era considerata come il risultato di un conflitto inconscio tra impulsi aggressivi o sessuali provenienti dall’Es e le conseguenti minacce di punizione derivanti dal Superio. L’angoscia segnalava la presenza di un pericolo nell’inconscio, che faceva scattare un meccanismo di difesa chiamato rimozione attraverso il quale l’Io impediva che le emozioni e i sentimenti inaccettabili giungessero alla consapevolezza.
La nevrosi d’ansia acuta era invece caratterizzata da un senso sopraffacente di panico e terrore, accompagnato da manifestazioni neurovegetative del tutto simili alle manifestazioni del disturbo di panico come definito dal DSM-V (2014).
Freud[2] per spiegare il fenomeno clinico dell’attacco di panico fece riferimento al concetto di ansia di separazione, quello stato d’animo di forte angoscia che il neonato, completamente dipendente dalle cure materne, prova nel momento in cui teme che la madre lo abbandoni o non sia disponibile a soddisfare i suoi bisogni. Sarebbe proprio questa angoscia di separazione, relativa a periodi arcaici dello sviluppo infantile, che si riattiverebbe nei pazienti con disturbi da attacco di panico, e consisterebbe nella paura di essere abbandonati e di perdere l’oggetto del proprio amore.
In seguito, il termine nevrosi ha assunto un significato più generale per riferirsi non solo a disturbi d’ansia, ma piuttosto per indicare un meccanismo patogenetico basato sulla presenza di un conflitto intrapsichico e l’attivazione di meccanismi di difesa.
Il modello psicoanalitico di interpretazione dei disturbi d’ansia è stato quello più accettato fino agli anni ’60 del secolo scorso, quando è stato soppiantato dalla diffusione del modello comportamentista e successivamente da quello cognitivo-comportamentale, che oggi è ritenuto uno degli approcci più efficaci nel trattamento dei disturbi d’ansia.
La spiegazione cognitivista
La psicologia cognitivista considera l’ansia, il panico e le fobie come forme di paura condizionate che sono state apprese tramite l’esperienza. La psicoterapia cognitivo-comportamentale utilizza una combinazione di tecniche comportamentali e di tecniche di ristrutturazione cognitiva per il trattamento di questi disturbi.
Secondo questa impostazione teorica l’attacco di panico è scatenato da una valutazione catastrofica di normali sensazioni di tipo neurovegetativo che l’individuo vive come pericolose e considera come segnali di un imminente disastro (Clark , 1986). Le tecniche di ristrutturazione cognitiva sono mirate a modificare queste interpretazioni associate al panico e a modificare il significato del panico stesso (Beck, 1985)[3].
Spiegazione neurobiologica
Negli anni ’80 si è affermato il paradigma biologico, che si è sviluppato con l’intento di studiare i meccanismi neurochimici sottostanti ai principali disturbi psichiatrici. Questo modello ha avuto una grande diffusione negli ultimi decenni, anche grazie agli interessi delle case farmaceutiche che hanno facilitato la ricerca scientifica.
La prima teoria neurobiologica del disturbo da attacchi di panico si deve a Donald F. Klein (1964)[4]. Questa teoria ha contribuito alla creazione della categoria diagnostica del Disturbo da Attacchi di Panico (DAP) che è stata inserita per la prima volta come entità nosografica autonoma nel Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders (DSM-III) nel 1980.
Con la pubblicazione dei criteri diagnostici del DSM-III (1980), le vecchie nevrosi d’ansia sono state distinte in due disturbi separati: il Disturbo da Attacchi di Panico (DAP) e il Disturbo d’Ansia Generalizzato (GAD).
Klein aveva scoperto che la somministrazione di imipramina (un antidepressivo triciclico) era in grado di bloccare le crisi di panico nei soggetti affetti da forme d’ansia acute che non rispondevano al trattamento con sedativi. Questo lo indusse a pensare di aver individuato un nuovo gruppo di individui ansiosi che rispondevano al trattamento con antidepressivi. Fu così creata la nuova categoria del Disturbo da Attacchi di Panico, per differenziare quest’ultima da un altro gruppo di soggetti ansiosi, cioè quelli affetti dal Disturbo d’Ansia Generalizzato, che non avevano crisi acute di panico, ma erano affetti da un tipo di ansia più diffuso, meno intenso e slegato da situazioni precise e che erano trattati con le benzodiazepine.
Da ciò concluse che mentre i circuiti neuronali che stanno alla base delle fobie e degli attacchi di panico sembrano essere gli stessi, i meccanismi implicati nella genesi dell’ansia generalizzata sono sovrapponibili solo in parte. Quest’ultima sarebbe attribuibile a un elemento più stabile della personalità, definibile come “tratto ansioso”, mentre l’angoscia degli attacchi di panico deriverebbe dall’angoscia di separazione che si prova di fronte alla perdita di una figura d’attaccamento.
[1] Freud S., Progetto di una psicologia e altri scritti, Opere cit., Vol. 2. Bollati Boringhieri, Torino, 1968.
[2] Freud S., Inibizione, sintomo e angoscia, Opere cit., Vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino, 1926.
[3] Poerio V., Merenda G., La psicoterapia cognitivo-comportamentale nella pratica clinica, Fiera & Liuzzo Publishing, Roma, 2008.
[4] Cassano G.B., Manuale di Psichiatria, Utet, Torino, 1994.
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